Vincenzo Trione
Critico d'arte
La Lettura - il Corriere della sera
Annalaura di Luggo è andata in giro per la città, con l’aiuto dei suoi scugnizzi, a raccogliere rifiuti per farne sculture pubbliche. Bruno Colella ci ha girato un docu-film entrato nell’orbita lunga degli Oscar. Perché è inferno ma anche Eden.
Nelle città invisibili Italo Calvino parla di Leonia. Che, quotidianamente, abbandona i propri resti, intrecciando il piacere per l’acquisizione di «cose nuove e diverse» con la voglia di espellere scorie. Intorno a Leonia, cataste di immondizia, una «fortezza di rimasugli indistruttibili». Quei «rimasugli» hanno affascinato tanti artisti del Novecento. Si pensi a uno dei padri del dadaismo, Kurt Schwitters, creatore, con il Merzbau, del più potente monumento innalzato ai rifiuti della civiltà moderna. E si pensi ai suoi tanti allievi ed epigoni. I quali sembrano mimare i gesti del netturbino di cui aveva parlato Charles Baudelaire ne I paradisi artificiali: un personaggio minore, che attraversa la silenziosa notte parigina, impegnato a raccogliere spazzatura, distillando da essa aromi; come un alchimista, estrae oro dal fango. In questa costellazione potremmo iscrivere il lavoro di tanti artisti che mirano a riproporre la strategia schwittersiana, arricchendola di ragioni politiche. È il caso di Annalaura di Luggo. Che, nel 2019, ha intrapreso una sfida coraggiosa. Una mostra di arte pubblica, dislocata in alcuni tra gli spazi più significativi di Napoli. Nella Galleria Umberto I ha allestito un monumentale albero fatto di scarti di alluminio; di fronte al Maschio Angioino ha installato un arco fragile e luminoso anch’esso di alluminio; in piazza Santa Caterina ha collocato un albero metallico policromo; nel cuore dei Quartieri Spagnoli ha presentato una scultura specchiante occupata da zoomate su occhi, che sembrano fissare lo spettatore. Occorre non limitarsi a descrivere questi interventi, che risultano piuttosto ingenui e talvolta «accademici». Bisogna ripercorre invece il lungo processo di cui questi lavori sono l’approdo. Il processo è stato filmato in Napoli Eden, un documentario diretto da Bruno Colella, con la fotografia di Blasco Giurato e le musiche di Eugenio Bennato, che ha vinto premi internazionali (tra cui, l’Impact Docs Awards California 2020, l’Hollywood Gold Awards e l’Age d’or International Arthouse Film Festival 2020). È di qualche giorno fa, infine, l’ingresso di Napoli Eden nella lista allargata dei candidati agli Oscar per il Feature Documentary. Si tratta non solo di un documentario ma di un film nato insieme con le sculture, parte di un unico discorso estetico ed etico: «Sono entrata in ogni fase, in ogni scelta, in ogni ripresa», dice l’artista. Napoli Eden muove da un racconto autobiografico. Una bambina si aggira su un triciclo in un cantiere navale affacciato sul porto di Baia, intenta a raccattare pezzi di barche. È l’alter ego di Annalaura fanciulla. Che, negli anni, è rimasta fedele a quell’attrazione per i frammenti abbandonati. Come emerge proprio dal progetto del 2019: superare diffidenze e difficoltà tecniche e burocratiche, per realizzare sculture site specific. A questo punto, il film si carica di valenze poetiche e civili. Per offrirsi a noi come riflessione sull’idea di riscatto: il riscatto di un materiale povero e luccicante come l’alluminio; il riscatto di una comunità attraverso l’arte; il riscatto di un intero quartiere, entrato nelle cronache per tanti atti camorristici.