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Gabriele Perretta
Critico d'arte

Tra chiasmi [1] e prelievi ottici
1.
Nelle conversazioni con Gustav Janouch, Kafka dice che “il movimento ci toglie la possibilità di guardare. La nostra coscienza si restringe e senza che ce ne accorgiamo perdiamo i sensi e non perdiamo la vita”. Perciò, le persone sono piuttosto dei sonnambuli che non dei cattivi, perché non sono coscienti dell’effetto delle loro rappresentazioni e delle loro azioni per costruirle[2].
L’occhio delle persone ha come normale pietra di paragone una macchina fotografica. Esso, infatti, è formato pressappoco così: sul davanti presenta un piccolo forellino nero, chiamato pupilla, che corrisponde all’obiettivo della macchina fotografica; nell’interno e precisamente nella parte posteriore si trova la retina, una membrana molto sensibile che, come la pellicola fotografica, rimane impressionata dalla luce. La retina è congiunta al nervo ottico, il quale conduce le immagini al cervello: infatti senza l’attività di quest’ultimo, noi non possiamo accorgerci di ciò che vediamo, né ci è possibile ricordare le immagini che abbiamo colto.
Tuttavia l’occhio è assai più complicato e delicato di una macchina fotografica. Basta pensare che la pupilla si dilata o si restringe a seconda che la luce sia più o meno intensa; inoltre nell’interno dell’occhio è situata una lente trasparente, chiamata cristallino, che regola da sé la sua curvatura consentendoci di vedere nitidamente, sia gli obiettivi lontani, sia gli oggetti vicini.
Ma anche l’occhio, proprio per la perfezione e la delicatezza del suo meccanismo, può presentare alcune imperfezioni, oppure addirittura ammalarsi. Accade a volte, che la sua conformazione non sia perfetta, e allora non si possono percepire con nitidezza le immagini: alcuni individui, ad esempio, non vedono bene gli oggetti lontani, e allora si dice che sono miopi; altri, invece, non percepiscono nitidamente gli oggetti vicini, e allora sono degli ipermetropi; altri ancora vedono gli oggetti in modo deformato, e questo loro difetto viene chiamato astigmatismo. Tutte queste imperfezioni si correggono con occhiali muniti di apposite lenti. In certi casi particolari il nostro occhio può ingannarci, fornendo immagini non perfettamente identiche alla realtà; andiamo cioè soggetti alle cosiddette illusioni ottiche. «Vedere» il colore bianco, chiaramente non è compito degli occhi: questi percepiscono certe intensità della luce che il linguaggio riunisce sotto il vocabolo «bianco». Come testimonia l’esempio di Bergson: la lamina bianca, sia che venga illuminata dalle candele o oscurata dalle ombre, continueremo per abitudine a chiamarla bianca, o al contrario, gli Eschimesi hanno nove differenti nomi per indicare l’incolore del bianco. Lo si è detto, vediamo solo ciò che è utile per il nostro agire; o ancora, come scrisse Wittgenstein, vedere una cosa è sempre interpretarla, dunque scambiarla con un’altra[3]. Le tinte non sono qualcosa che noi definiamo, ma dei nomi; e questi nomi servono a comunicare qualcosa, a designare più cose nel reale che investono un’azione particolare.
2.
Per comprendere la relazione vivente tra gli occhi e il resto del corpo, nel suo complesso, bisogna rifarsi all’evoluzione umana dell’arte.
Partendo dallo stadio primitivo del pesce notiamo che gli occhi, il sistema nervoso e quello digestivo, sono collocati lungo una stessa linea abbastanza dritta che dimostra l’esistenza, tra loro, di una precisa connessione. Per quanto riguarda il sistema digestivo, diremo che gli occhi sono la principale rappresentazione della condizione del fegato, ecco perché molti inconvenienti di questo organo possono essere rilevanti con la semplice osservazione dell’occhio. Lo studioso russo Pavel Florenskij è ossessionato dal volto e, in particolare, dal valore “ontologico dallo sguardo”. Di fronte a noi si stagliano due colonne di senso, alle quali appellarci: l’aprirsi del volto (sguardo) alla vita interiore, via per il mistero e lo stupore contemplativo; oppure l’esteriore e bramoso dominio del mondo e delle sue creature (una forma d’ingordigia che muta il volto in maschera). Se, come intuiva Wittgenstein, «il volto è l’anima del corpo», la porta regale[4] si dischiude come lembi di un’ostrica, l’uomo si arresta tremante di fronte all’infinita possibilità di “manifestare o nascondere l’essere”.
La spaventosa libertà può farci annegare nell’esperienza del male, dinanzi a quella parvenza d’essere chiamata maschera. Solo la sua caduta – una profonda rottura – consente il ricongiungimento con il piano più “alto” al quale aneliamo, permette di superare l’abisso del vuoto per ritrovare il calore originale della vita. È qui che lo sguardo viene calamitato verso l’alto, aspirando a quel modello natio che è l’archetipo dell’universale-divino. “Nel volto il movimento della vita si riflette in maniera interiore a differenza del resto del corpo, ove prevale una dinamica più esteriore. Pertanto per comprendere la natura delle idee è necessario confrontarsi con l’espressività del volto” ci avverte il mistico russo, che trova in esso il fondamento ontologico e salvifico del volto-sguardo. “Ogni condizione particolare dell’uomo, ogni momento della sua crescita, ogni suo movimento, in maniera più o meno forte, brilla della luce del suo sguardo, della sua specie”. Se esaminassimo l’ambito teatrale, performatico, nonché fotografico e video, facendo tappa nello specifico della multimedialità ritrattistica, potremmo annotare (e ammutolire) che la maestria dell’artista, colui che infonde intensità alla vita del ritratto, dipende essenzialmente dalla quiete e dall’ampiezza del movimento dello sguardo che osserva, cura, solleva, definisce, socializza.
3.
Nello spazio profondo ogni particella luminosa ha una vista. Il problema è entrare in comunicazione con esse. Chi non ha mai detto: “Mi sarebbe piaciuto scrivere, raccontare, filmare i miei pensieri, trovare gli scatti giusti per dire di quella nostalgia che sta giù, in fondo a non so dove? Magari nella pupilla di Collòculi!”. “Poi è bastato un respiro di parole semplici, un’inquadratura in sequenza, per intercettare cose che semplici non sono. Con riguardo le abbiamo lustrate nel lindore dei fatti partenopei, messe in fila come tante scenette e sono nate queste sequenze, questi frammenti, queste righe di scrittura filmica che hanno messo al sicuro, dentro a un’iconografia, qualche spiraglio del nostro sfumato ricordare. Sono brevi, microscopici foto-quadri-di-vita, che odorano ancora di sugo, di acqua del golfo, di occhi sgranati e travestiti, di nuove magie del territorio”. Sono piccole memorie che nascono libere, perché prive di ogni presunzione, ma cariche di un forte potere evocativo che ci coinvolge e, una volta tanto, ci unisce. “Se c’è qualcosa che non è solo nostro, è la memoria fotografica più intima”. Collòculi>We Are Art ne è la prova sovraindividuale. Dietro un’apparente diversità, queste immagini dei ragazzi racchiudono una profonda rassomiglianza, una continuità armoniosa, un fare memoria, di un abbecedario che tutti conosciamo per sentito dire: lo spessore dello scenario interiore. Non c’è nessun confine tra un ricordo e l’altro, ed è come se fosse un unico soggetto a raccontarci la sua esperienza; piena, piena di ingenue astuzie, di sofisticate immagini, di esoterici simboli, di una grazia perduta. Nel ricordo autobiografico il dolore è lontano dalla ferita, la rabbia dura il tempo di uno sbadiglio e l’amore non fa soffrire perché ancora non ha nome. A sorpresa tra queste immagini, si legge che noi che raccontiamo siamo quelli di mezzo, in mezzo alle voci di Larissa, Pino, Youssuf, Noemi, etc…, incapaci di non riconoscere la strada bianca, la visuale che ci conduce all’agnizione. A leggere Collòculi e We Are Art, si ha la sensazione che l’autore proceda verso un’interrogazione della visione in modo originario, come se tutte le sue opere precedenti non pesassero sul suo sguardo. Già dal titolo, Collòculi e We Are Art, si individua il soggetto dell’interrogazione e il suo medium: lo spirito del colloquio e l’occhio. L’occhio, infatti, è l’apertura verso il mondo, nel quale il nuovo lavoro sulla medialità vorrebbe ricollocare il nostro spirito. Questo tentativo è reso possibile dall’arte e in modo particolare dalla convergenza di vecchi e nuovi media (dalla fotografia, la grafica in 3D, la realtà virtuale ed immersiva), che attingono a questo strato di senso bruto, ossia alla nostra storicità primordiale.
Tale meditazione si sviluppa da una questione ben precisa, di cui l’architettura mediale e il film parla sin dalle prime pagine: il manipulandum, che le persone pensano di essere e che sono diventate entrando in un regime di cultura, dove non esistono né vero né falso in merito a se stessi e alla storia. Esse, perciò, vivono in un sonno o incubo da cui non esiste risveglio. Queste questioni non sono molto distanti da quelle che ci toccano più da vicino; seppure, ormai, siamo al punto di non ritorno di un processo che M. Merleau-Ponty ha vissuto nella sua maturità. Ora, «la scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle» e «si confronta di quando in quando con il mondo effettuale», trattando ogni essere come un oggetto in generale, mentre la scienza classica «conservava il senso dell’opacità del mondo, ed era il mondo che intendeva raggiungere con le sue costruzioni»[5]. In tal senso, è necessario «che il pensiero scientifico si ricollochi in uno spazio, un campo, un territorio semantico preliminare, nel luogo, sul terreno del mondo sensibile e del mondo lavorato, così come sono nella nostra vita». Si tratta di un’affermazione carica di espressione, perché non si evidenzia soltanto sul referente ultimo della scienza, il mondo sensibile, ma anche su chi opera in esso: il nostro corpo. Non quel «corpo possibile che è lecito definire una macchina dell’informazione, ma questo corpo effettuale che chiamo mio», «la sentinella che vigila silenziosa sotto le mie parole e sotto le mie sensazioni»[6].
Le installazioni e i docu-film che seguono, questi nostri discorsi, sono l’espressione di tale intento e sviluppano, inoltre, l’interessante intreccio tra scienza e arte, laddove quest’ultima ci ricolloca negli spazi dai quali i sofismi della ragione ci hanno allontanato. Il costruttore mediale, interessandosi (inter-esse) al mondo e prestando il suo corpo, lo trasforma in dialoghi tra performance, azioni e schermi. Per «comprendere tali transustanziazioni, bisogna ritrovare il corpo operante ed effettuale, che non è porzione di spazio, un fascio di funzioni», bensì un intreccio di visione e movimento. Questo corpo movibile rientra nel mondo visibile, ne fa parte e per questo possiamo indirizzarlo nel visibile. È possibile perché «tutto ciò che vedo è per principio alla mia portata, segnato sulla mappa dell’io posso»[7]. Sommerso dal percepibile «mediante il suo corpo, anch’esso visibile, il vedente non si appropria di ciò che vede: l’accosta soltanto allo sguardo, che apre sul mondo»[8]. Di qui si libera lo stupore di chi si muove nel mondo col proprio corpo, fonte di ogni sapere che va, talvolta, al di là del concepibile. L’enigma di questo doppio intreccio mondo-corpo sta nel fatto che il corpo è insieme vedente e visibile. Esso è annoverabile tra le cose, «ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio intorno a sé»[9]. C’è un re-incrociarsi fra vedente e visibile, fra chi inquadra e chi è inquadrato, quando si accende la scintilla della sensibilità. La documentazione su schermo illustra l’enigma del corpo: «qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché risveglino un’eco nel nostro corpo, perché esso li accolga»[10].
E così il videomaker impara da se stesso vedendo, perché «è toccato da un certo impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile»[11], donando esistenza a ciò che la visione empia crede invisibile. L’interrogazione dei Collòculi «mira a questa genesi segreta e fabbrile delle cose nel nostro corpo»[12]. Si comprende che il corpo è quel medium, quella via di mezzo tra lo spirito e il mondo. Premessa dimenticata dalla visione in senso profano. La visione, invece, non è la metamorfosi delle cose stesse nella visione che ne abbiamo, ma è pensiero che decifra, in modo rigoroso, i segni dati nel corpo. Questa visione di fatto è il diorama che contiene, è un segreto perduto, fin quando non viene ritrovato un nuovo equilibrio fra scienza e arte. Per questo motivo, il campo mediale ricerca un pensiero su quel creato di anima e corpo che noi siamo, su quel sapere di posizione o situazione, per raggiungere un esito che ci consenta di cogliere una questione molto profonda: l’enigma dell’esteriorità. L’attenzione data alla medialità si muove in questa direzione poiché quel tipo di visione non è uno sguardo su un di fuori, secondo una relazione fisico-ottica col mondo. Il mondo non è più «davanti a lui per rappresentazione: è piuttosto il pittore che nasce nelle cose»[13] e, perforando la pelle dello schermo, mostra come le “figure” si fanno in quanto tali. La conseguenza è che l’arte non può più dirsi a-costruttiva, natura ingombrante, rapporto industrioso con uno spazio e un mondo esterno: il mediale «fornirebbe ai miei occhi più o meno quel che viene offerto dai movimenti reali»[14]. Al cuore di tale esperienza, si giunge quando si definisce l’occhio come finestra dell’anima, poiché si compie il prodigio di aprire a essa ciò che non è anima. Merleau-Ponty scopre lo spazio in cui la critica torna a interrogarsi, lo stato di uno stupore continuo, le particelle dell’Essere e quel che non è mai del tutto. In questa interrogazione perenne, la ragione reclama una validità per colmare il suo vuoto e su questo terreno instabile si costituisce il nostro manipolandum. Se le produzioni non sono, però, «un dato acquisito, non è solo perché passano, come tutte le cose, ma perché hanno pressoché tutta la loro vita dinanzi a sé»[15].
4.
La rappresentazione visiva della cecità è nota ai più per le sue sembianze fisiche, è sempre argomentabile perché la memoria dell’interprete tende a sovrapporsi alla memoria dell’autore, e questo rende difficile e tortuoso l’itinerario, dato che presenze multiple e contemporanee di segni, di elementi significativi devono essere sintetizzate e racchiuse all’interno di uno spazio e di un tempo, che siano poi parzialmente riconoscibili. Dei soggetti che camminano, la topografia di uno spazio, un monte, la chiesa, l’itinerario, la caduta, una città, un paese, un oggetto sono, sul piano temporale, realtà ferme dentro una cornice di stabilità, in quanto le nostre attese e, soprattutto, le nostre capacità percettive si comportano, in questo caso, con occhi sincronici che semplificano e riducono la complessità a comportamenti e modelli visivamente classificabili.
Il paesaggio umano, al contrario, è più complesso: infatti, è da intendersi come immagine simbolica, come reportage, senza con questo perdere la sua caratteristica fondamentale, necessaria per farsi riconoscere. Il reportage pittorico appartiene, quindi, a un genere narrativo che sta tra il disegno e l’illustrazione, tra l’interno e l’esterno. De Parabel der Blinden, è un dipinto a tempera su tela, cm 86x159 di P. Brueghel il Vecchio, databile 1568 circa e conservato al Museo Nazionale di Capodimonte[16]. Nel caso della Parabola dei Ciechi, essendo destinato a supporti di fruizione popolare deve andare oltre gli aspetti più descrittivi per arrivare a colpire, con un segno indimenticabile: il fruitore di immagini vs la parola e le parole vs le immagini.
Era veramente indispensabile appostare La Parabola dei Ciechi fra le immagini del docufilm di Annalaura di Luggo? Non se ne trovano già abbastanza, a guardar di nascosto, la penna e la macchina da presa di giornalisti e poeti? Forse una buona ragione esiste e la risposta va cercata nella fonte dell’immagine di questa installazione e di questo docufilm. All’inizio degli anni ’60, un repertorio iconografico che dimostrasse come occhio, sguardo, vista e meato fossero stati, per tanta parte della cultura occidentale, gli opercoli da cui spiare l’occhio del mondo fuori e dentro l’occhio di Dio, rappresentava ancora una valida argomentazione contro una censura sclerotica, tormentata dalla cornice dell’irrisolto e dell’ovvio come da un mal di visione, tollerabile al limite ma, in prospettiva, da operare. Erano i tempi degli studi sui Fiamminghi e bisognava guardare i ciechi per poter rincontrare una vista potenziata. Ma il vedente, o meglio il cieco di J. Derrida, è eccitato di visualità come lo era nella scrittura del decostruzionismo? Il cieco e l’artista si trovano in una situazione consimile, appesi al buio e nell’invisibile, alla ricerca di un sostegno che possa fornir loro un’orma o un percorso, un’apertura «nel» mondo. Ovviamente il limite di questo accostamento sta nel fatto che il cieco non può fare altrimenti, per necessità fisiologica, mentre l’artista è mosso da un altro tipo di esigenza, che lo sospinge ad addentrarsi in un territorio in cui la vista l’abbandona e nel quale deve imparare ad orientarsi con altri mezzi, ad anticipare (ante-capĕre come un pre-vedere) ciò che gli viene incontro. Il mondo del cieco e il mondo dell’artista – per parafrasare Wittgenstein – sono lo stesso mondo della persona comune; a cambiare, però, sono i modi di accessibilità al mondo che, in questo caso sinestetico, costituiscono una vera e propria metamorfosi del senso, che ci costringe a ripensare in maniera paradossale la metafora della visibilità, in cui siamo tenuti a considerare una “prospettiva” del cieco che sembra, perlomeno a livello ingenuo, figura arcana. Come il profeta Tiresia che è cieco solo in apparenza ma può vedere ben al di là dei comuni mortali, così l’artista si trova immerso nell’invisibile, in un contesto molto simile all’amante educato da Eros. (Non scherziamo, occhiali e lenti a contatto sono venduti nei negozi e nelle cliniche specializzate.) E poi il bello di Brueghel il Vecchio è la Parabola, il suo incorreggibile punto di riferimento della cultura verbo-visiva, quell’attenzione plasmata sui caratteri e sulle circostanze del ravvicinamento, della comparazione, del paragone: confronto, quindi, e spiegazione di un’illustrazione o di un insegnamento.
La Parabola ha sempre estratto con precisione le minime debolezze dell’icona, acuendo la difficoltà della metafora visiva, ha insegnato all’ortodossia della vista profondità inedite. In questa ambiguità oscillante tra iconofilia e iconoclastia, fonda ancora le sue fortune mediali, presentandosi sotto le spoglie dei ciechi. Preferisce tenere costantemente aggiornato il proprio processo iconico, discostandosi da un criterio frequente dello sguardo, che individua la sfera impersonale del video, o il punto di partenza sulla costituzione dell’immagine schermatica. L’operatore mediale concentra la sua attenzione sulla caratteristica dell’occhio altrui. Nella pratica di Collòculi si congiungono due significati. Collòculi è l’atto di vedere con l’altro e nell’altro, e, insieme, la realtà che mi si presenta davanti agli occhi. L’esperienza mediale attuale rivela una concordanza spontanea fra l’aspetto soggettivo, la storia sociale dell’occhio e quello oggettivo del fenomeno: l’esplorazione non mi mostra un caos, ma una sequenza oggettuale della Parabola dei Ciechi. Questa relazione fra la Parabola dei Ciechi e il mondo visto costituisce la struttura di We Are Art. L’ambigua struttura del corpo umano che si è trasferito fra gli schermi, vedente e visibile, soggetto e insieme potenziale oggetto di percezione, suggerisce che la visione non può essere ritrovata solo come un incontro fra ciò che si fa storia di vita e l’ocularità ricettrice eterogenea. Al contrario i caratteri sensoriali, l’esperienza di vita del mondo hanno un equivalente interno a Pino, Youssuf, Larissa e Noemi, e non potrei avere una percezione ordinata se nel mio percorso di operatore mediale un tracciato di collegamento non prefigurasse la parola. E la schermata video, arte partecipata e anonima, esperienza collettiva, pratica immersiva in una regia collettiva che meglio esplora la geografia sociale dei Collòculi, è l’applicazione della We Are Art. L’operatore mediale racconta alle altre persone come ha visto, cosa ha cercato, cosa ha guardato, cosa ha inseguito e cosa ha intervistato per introdurre la struttura interattiva, in ferro, in alluminio riciclato e l’azione digitale delle telecamere gesture recognition, invita a mettere a fuoco i soggetti che si posizionano davanti all’occhio per legittimare la propria e l’altrui immagine. Nell’occhio visibile della gesture recognition, ogni sguardo può riconoscere i percorsi che riconducono dall’occhio al mondo e dal mondo all’occhio, al mio occhio, all’occhio di chi mi espone la sua storia.
Trasferendo nella sfera visiva ciò che appartiene ad altri campi sensoriali, l’operatore mediale si spinge oltre i dati visuali in senso stretto ed amplia la potenzialità della visione, giungendo, appunto, a dei Collòculi! Questa teoria dell’occhio spirituale, dell’occhio tra il materiale e l’immateriale, filo conduttore di tutta la complessità installativa e cinematografica, mostra il legame tra schermi e vite, riproduzione e umanizzazione. È il critico che lo svela, perché l’arte dell’operatore mediale è trasparente e fluttuante. Egli non è la persona che racconta la visione, bensì la condivisione, l’origine del dialogo che fa vedere l’universo di sofferenze gettate nel mondo in cui si costruiscono i Collòculi! Quando diviene critico della sua arte, l’operatore mediale non ritrova più quello che spontaneamente sa mentre pensa col fare. L’operatore mediale facendo ritiene, invece, che la nostra conoscenza de La Parabola dei Ciechi è l’unico mezzo per andare al cuore delle cose: pensare il composto di anima e corpo senza sciogliersi in sovrapposizioni astratte; è il compito fondamentale dell’installazione mediale. L’occhio e lo spirito collettivo sono uniti da un patto naturale. Diderot, nella lettera sui ciechi, mostra nella figura della cecità del professore di ottica Saunderson le risorse di un intelletto che non solo corregge la menomazione fisica, ma la volge a vantaggio della comprensione più profonda della realtà. Se prendendo in considerazione questo caso artistico-filosofico, sembra che si entri in contraddizione con quanto detto riguardo la cecità e un ipotetico fare del cieco, in verità ci viene offerta di nuovo una possibilità per mostrare che la porzione dell’Essere tematizzata dall’artista sia mero ob-jectum, solo all’interno del paradigma della visione.
Se siamo coerenti con le nostre premesse invece, e ci ricordiamo che la storia della presenza e della rappresentazione come porre-dinanzi sono solo una parzialità di una storia fatta anche nell’invisibile, allora capiamo come la prospettiva che abbiamo sul reale si possa ampliare tenendo conto dell’esperienza e dello sforzo cieco che accompagna il lavoro dell’artista. Attraverso Collòculi si enfatizza questo sospendersi della visione sulla soglia dell’aptico[17], per conservarsi in un’apertura all’evento: all’ancora-da-toccare, all’ancora-da-vedere che struttura la nostra esperienza cinestetica del mondo, il nostro movimento, il nostro desiderio. In breve: la trascendenza che abita la nostra immanenza è analoga all’invisibilità complementare alla visibilità, e non può essere esaurita da nessun tentativo panottico, pena la rinuncia della tensione vitale che abita l’osservatore, il curatore e l’artista e che ci predispone alla sorpresa dell’evento. L’approfondimento della sfera di Collòculi, il confronto con la Parabola dei Ciechi, è un “punto di ottusità”[18], anche perché un occhio che voglia vedersi come vedente non troverà altro che un rimando a se stesso (solipsismo e autoreferenzialità). Così anche noi, guardando Collòculi, abbiamo bisogno di un’“indicazione esterna per capire che si tratta di un NOI autoproiettato”, altrimenti viene lasciato al campo delle ipotesi che, come quello della memoria, è un punto di cecità relegato al contingente e non proprio di un’intellegibilità “diafana” e “pura”. In una conferenza del 2002, due anni prima della sua morte, tornando sul tema dell’esperienza del vedere, Derrida ripropose proprio questo interrogativo: «Si tratta di sapere se la vista è un’esperienza del primo tipo, vale a dire che ha a che fare, come spesso si crede, con ciò che sta di fronte […], vedo ciò che è qui davanti a me, oppure se la vista ha a che fare, appunto, con l’invisibilità, o con una visibilità che non si pone nell’oggettività o nella soggettività […] la possibilità essenziale del visibile, non è visibile»[19]. In conclusione, per Collòculi e per We Are Art (a partire dalle sue enunciazioni visive di storie e di confronti con Pino, Youssuf, Larissa e Noemi) tutto questo ci aiuta a capire come in realtà la sfera del sensibile e dell’intelligibile non siano separate. Se una parte della critica d’arte e della semiotica ci ha messo in guardia dai sensi, dal fatto che ci possano ingannare, pur non potendo che costruire sopra di essi il senso di una conoscenza che si elevi fino alla certezza, con la sperimentazione mediale possiamo notare come anche la «letteratura artistica» non appartenga solo al regno del visibile (dunque intelligibile), ma condivide in larga misura una cecità altrettanto «matriciale», nella coappartenenza del letterato (lettore) con il mondo, alla sua affettività, e non in una posizione privilegiata da cui poterlo osservare. Nessun razionalismo esasperato può, dunque, garantire nel suo monolitismo il sistema della realtà fatto e finito. Per quanto si pensi di liberarsi facilmente delle dimensioni che orbitano attorno al logos, e che attraversano l’essere umano (sensibilità, affettività, corporeità, ispirazione, pulsioni), non si può ridurre «l’essere della fruizione» ad un monopolio asfittico, per quanto migliori e cancelli, nella sua metafisica le sue metafore di una visione/intelliggibilità perfetta, trasparente, pura. Il linguaggio stesso tradisce questa mitologia bianca[20], l’esperienza (quella artistica come modo d’accesso alla realtà altra, rispetto alle sedimentazioni della filosofia) ci mostra l’impossibilità di configurare questo spazio di trasparenza e ci invita a rientrare «nei sensi del mondo»[21], nelle sue pieghe e nei suoi punti ciechi, in primis quelli della stessa estetica, andandoli a scoprire lungo il corso della sua storia e nel suo linguaggio. Se l’esercizio curatoriale oscilla tra la posizione della talpa che scava cieca nel farsi della storia e lo sguardo panottico della nottola di Minerva che può abbracciarla nel suo volo sul farsi del crepuscolo, dovremmo dire che non si tratta altro che di un senno di poi e che, anche nel momento in cui lo sguardo critico si posa sul mondo, non lo può possedere sub specie aeternitatis: lo sforzo letterario-artistico, anch’esso un gesto d’amore come si suol dire, non può esaurirsi. È un altro compito infinito: è l’andare a tentoni di corpi e ragioni incarnate, in certa misura ciechi, in certa misura trasportati in una zona di non-visibilità costitutiva della nostra visibilità, attraverso la mancanza, il desiderio e l’assenza. Il semiologo e il curatore non solo non possono essere trasparenza per sé - l’occhio vedente non vede se stesso vedere, come nei Collòculi - ma nemmeno astrarsi dal mondo rinnegando i propri limiti costitutivi (da non scambiare con limitazioni). Ogni espressione curatoriale, ogni visita alla Parabola dei Ciechi, costituisce un punto di accesso sul mondo e, allo stesso tempo, porta con sé un punto cieco in una supplementarietà[22] che precede l’attività del rinviare e il posticipare come ritardo. La cecità, infatti, accompagna sia l’inizio della curatorialità nell’ascesa al di fuori del senso comune, sia la sua fine nella difficoltà di potersi riadattare alla scarsa luminosità della cavità dell’occhio. Ecco che questo lavoro svolto ai limiti dell’arte,della letteratura artistica, della curatorialità e dell’osservatore partecipante (il nuovo vedente mediale in possesso dello smartphone) diventa utile per ripensare la medialità stessa: a partire dal suo cominciamento, forse andando al di là delle astrazioni di un sapere puro, rivalutando la sua prassi, aprendo o rinnovando il sodalizio con altri campi della sensibilità e dell’esperire umano, a partire dalla riconsiderazione delle strutture semantiche che esprimono il nostro confrontarci con il mondo, il nostro abitarlo attraverso il linguaggio dei vecchi e nuovi media.

Collòculi - We Are Art

1.
La multimedialità è una delle sostanze principali del nostro immaginario, arte proiettiva per eccellenza: i suoi frame, i suoi ambienti immersivi e le sue icone fluttuanti condensano e rappresentano i temi della vita sociale e del sentire contemporaneo e conferiscono efficacia visiva ad aspetti fondamentali del dibattito sui media.
Da molto tempo per questo motivo, il laboratorio mediale, è entrato a far parte a pieno titolo degli esercizi di scenario o di visione. Il laboratorio mediale svolge nel mondo contemporaneo sia il ruolo della riproduzione del reale che un ruolo di rottura. In questo secondo caso il medialab digitale produce quello straniamento e quella fenditura, che sono le condizioni dell’arte attuale ed anche il passaggio di frontiera da cui si vedono emergere le immagini e i comportamenti virtuali diversi.
Il mondo, secondo gli occhi degli artisti digitali, è una straordinaria trama di atti collegati e montati, di improvvisazione dei media e di automatismi visionari. Gli atti veramente visuali sono scansionati dal ritmo della ricerca, tanto che attorno a loro aleggia l’aura della rappresentazione e del dialogo con le varie forme di corrispondenza artistica. Il fine dell’arte è quello di darci una sensazione delle cose riprese, una sensazione che deve essere visione e non solo riconoscimento. Per ottenere questo risultato, il laboratorio digitale si serve di due procedimenti: lo straniamento delle cose e la narrazione delle vite e dei documenti di vita.
Sicuramente oggi il laboratorio digitale occupa, nella produzione culturale, nella complicazione della forma, in modo addirittura più ricco, il ruolo che in passato hanno avuto altri media o la rappresentazione teatrale, la musica e il melodramma.
Spesso registi e artisti multimediali nel tentativo di aprire nuovi orizzonti, o di costruire rappresentazioni originali di eventi o temi musicali, producono dei veri e propri sbilanciamenti sul futuro. Esattamente come fanno gli scrittori, anche se i materiali visivi hanno un formato ed un’accoglienza tale da diventare un supporto di estrema importanza e di grande ricchezza per chi disegna scenari o campi di esposizione.
L’elemento visuale (la pittura, il disegno, la fotografia, il cinema, il web, etc…) è ormai, a pieno titolo, non solo uno strumento nel processo di rappresentazione della realtà, ma anche un elemento fondamentale di supporto al processo di decisione in molti ambiti creativi e costruttivi: dalla rimodellazione dei formati mediali alla costruzione delle nuove architetture della visione. Il cinema e l’installazione multimediale diventano elementi di sintesi, aiutano a focalizzare i conflitti - per immagini - col presente, diventano un’evidenza di supporto per la formazione e la codificazione mediale.
«L’universo mediale», anche nelle sue diverse radici culturali, è uno strumento per avvicinarsi alla Terra e ai suoi molti mondi. Il carattere multiforme dell’universo mediale consente di accoppiare in modo formale i linguaggi artistici, con un lavoro di work in progress. I metodi utilizzati a questo scopo sono diversi: l’uno più partecipativo e vicino allo stile dei giochi di relazionalità costruttiva ed esplicativa, l’altro sulla “mappa base” tra installazione e film o documentario. L’evento del formato mediale è l’emergenza di una differenza che si staglia “in altro”, in “maniera parziale”, prospettica e, in quanto parte, pone il “problema della partecipazione”. Partecipare significa prendere parte, essere una parte. Che cosa significa partecipare al mondo, nel mondo dell’evento? La pura immanenza del mediale intreccia la differenza dei linguaggi visivi, senza distinzione numerica e separazione, tra lo sfondo della molteplicità sostanziale e le “emergenze del formato”. Con il mediale, l’immanenza del formato conosce una svolta, assumendo un significato critico, in base al quale non si deve giudicare la pratica artistica a partire da istanze tecnologiche esterne. Parafrasando il poeta, quindi, o si crede ai fatti, o si crede all’interpretazione in cui solo si costituiscono “i lampi di espressione”. L’insufficienza della domanda sulle condizioni di possibilità risiede, pertanto, nell’assenza di una spiegazione altra dall’installazione e dal cinema, sia dell’esposto che dell’esponibile. Qui, il termine vita è il nome dell’esposto, ma non come vorrebbe la fotografia, assunto pre-iconograficamente, al di fuori del sistema e del rigore del concetto.
Capire il senso del formato della tecnica e della sua esposizione, capirne il radicamento esperenziale, è forse la posta in gioco fondamentale di Collòculi e di We Are Art.
2.
La verità è che nell’arte visiva accademica - e cioè nel cosiddetto costrutto visivo classico - gli occhi non esistono. O meglio: devono svolgere il loro compito, spesso importantissimo, senza però essere cospicui in alcun modo. Perché? Perché quello che conta, in questo tipo di visualità, è la linea, il movimento espresso nel suo insieme: quello della pittura, della grafica, del disegno, che culmina sulle superfici bidimensionali e tridimensionali. E qualsiasi cosa lo spezzi – qualsiasi fremito di un occhio per così dire autonomo in contrasto con il movimento (quello, perché no? dell’anima) – era ed è considerato contraddittorio, esterno, irragionevole, post-fontaniano, o forse post-spazialista. A meno che quello della faccia, audacemente indipendente dallo sguardo, non fosse e non sia un movimento necessario alla sintesi visiva bidimensionale, e quindi incaricato di un messaggio speculare chiaramente leggibile. Un po’ la stessa cosa sta anche alla base del movimento di altre arti, nella rappresentazione accademica, perché anch’esso deve essere parte integrante del movimento che si arresta nella specularità mimetica, di cui la vista è l’elemento strutturale, con relativa necessità di fluire in linea, stendendo le dimensioni del supporto più possibile.
Insomma, l’immagine classica ottocentesca, quella dei grandi classici, è l’espressione movimentata, il desiderio dell’azione non azionato. Se il pittore o la pittrice sgarrano dalla stretta osservanza di questa legge visuale non scritta, la gestualità bidimensionale sembra subito una leziosa bandierina impazzita e, per di più, pesante come pietra.
Soltanto nel Novecento, un pittore singolare come Francis Bacon, si lanciò alla riconquista delle mani, del movimento degli occhi, anche in un contesto del tutto astratto. Gli occhi nei colpi alla pittura, al quadro di Bacon, riacquistano la licenza dello sgarro, della deriva, in espressioni improvvise della cromia, estrosi, spiritosi, anche in totale contrasto con la direzione del profilo, della riproduzione. E, sempre più, si accentua la licenza di libere espressioni nelle creazioni di una pittura contemporanea, soprattutto nell’orizzonte della figuralità.
Gli occhi, nella multimedialità, su schermi e formati della riproduzione mediale sono, invece, l’elemento di forza della multivisione espressiva. Perché in questo arto il messaggio narrativo – e ogni valore linguistico-espressivo che si riconosce – è affidato in gran parte proprio ai Collòculi, che imitano, spiegano, commentano, escono e entrano negli schermi (o forse dagli schermi!).
In effetti, se si guardano con devozione ambedue queste arti – nel senso di non propriamente visive o verbali – si vedrà che sta proprio nell’occhio (nell’uso verbale o non verbale di questi e cioè nell’uso di un movimento che coinvolge anche il corpo vivo) la differenza tra loro. La differenza è questa: nella multivisione (e nella vita quotidiana), il gesto, il movimento degli sguardi finisce dove finisce l’esperienza reale. Nella performance, invece, – un’arte in cui il messaggio espressivo è affidato al movimento nel suo insieme (e nel suo fluire) – il movimento degli occhi sullo schermo sembra venire dal profondo dell’anima e proseguire oltre, quell’esperienza, per sempre. Anche nell’esperienza quotidiana, gli occhi sono importanti; perché la tecnica e l’estetica di quest’occhio trasferito dal bidimensionale alla realtà aumentata (nei suoi vari approcci collòculiani) è spesso totalmente multivisivo, ovvero mediale: ogni coinvolgimento della vista delle persone, nell’installazione mediale e nel docufilm, racconta. E racconta con gli occhi e il tatto (aptico), principalmente, e secondo codici di una connotazione sociale assoluta: ogni occhio di Noemi, Youssouf, Larissa e Pino, la vita di una persona, la dimensione di una condivisione, il riconoscimento di un ritratto, di un’identità, di una storia, un sentimento collettivo. E ogni cambiamento anche minimo, in quei movimenti degli occhi può modificare anche del tutto il suo significato. L’universo - assortimento di gesti, di comportamenti, di storie di vita e di relativi significati[23] - si chiama per sintesi: Collòculi vs We Are Art. Un tessuto di occhi speculari avvolge il nostro mondo, da quando siamo entrati in quella che Collòculi chiama We Are Art, in un campo di formati semiologici in cui è più facile individuare un’icona che un discorso. I Collòculi ci divorano, ci assillano. Siamo immersi, sprofondati nell’istallazione di un grande occhio e nel corrispettivo di un film che documenta la storia di otto occhi per quattro soggetti espansi. Gli schermi integrati negli smartphone hanno cambiato l’uso della fotografia e le telecamere di riproduzione funzionano per emanare specchi di storie e di tattilità. Le vite vengono vissute sul posto in cui si trova lo schermo; troppo numerose per meritare di essere conservate, così numerose che ben presto tutti i fatti dell’installazione di Collòculi e di We Are Art diventano oggetto di un’espressione poetica collettiva, come la digitazione di un semplice proposito.
Non c’è simbolo senza ispirazione, sfera visibile senza invisibile, figurazione senza trans-figurazione, vista senza svista, concentrazione senza dispersione.
Il concetto di trasfigurazione, di “arterità” plastica del dato visibile, reinterpretato, risemantizzato, tema emarginato da tanti sguardi contemporanei, sembra essere al centro dell’indagine artistica di Annalaura di Luggo. È una “installazione”, allestita e contemplata nel progetto di Collòculi, in una inedita alternanza tra “iconografia dell’occhio sensibile” e “sinestesia dell’interazione”, che dà forma al linguaggio totale dell’opera multisensoriale. Collòculi è un registro che tende al visibile, che cerca di portare a manifestazione ciò che si percepisce, ciò che il singolo percepisce, riuscendo a dare un carattere universale. Annalaura di Luggo produce sentimenti di se stessa, di “ragazzi di vita”, ma allo stesso tempo riesce a parlare della storia dell’occhio. Annalaura di Luggo “fa sentimenti” in modo diverso da come noi li viviamo, nel senso che li produce in modo nuovo, non ri-produce soltanto, ma produce qualcosa in cui tutti si possono riconoscere: “viste” in cui tutti possono abitare. La vista non può vivere senza l’arte, per il semplice fatto che l’arte coltiva il sentimento dell’occhio – parte a cui esso è legato – nelle vite degli altri, nei colori degli altri, nelle “esperienze di vita del senso comune”.

COLLŎQUĬUM [COLLOQUIUM], COLLOQUII
CONVERSAZIONE, DIALOGO, INCONTRO

ŎCŬLUS [OCULUS], OCULI
OCCHIO, ORGANO DELLA VISTA

Collòculi deriva dalla fusione di due lemmi e nel combinare significato grammaticale e artistico, diventa forma circolare, assumendo come “geometria essenziale” e come “struttura concettuale di sostenibilità” il legame tra persona, opera ed ambiente. Progetto scultoreo, immagine mediale e rimediazione “multisensoriale”, Collòculi di Annalaura di Luggo, mentre modifica il contesto in cui è inserito, consente di attivare un meccanismo di rinnovata consapevolezza nei confronti dell’installazione, non più o non soltanto surrogato di monumentalità, ma occasione per rileggere dimensioni umane trasfigurate in contesti mutabili. La forma non si risolve in se stessa: è forza effettiva e corporea e richiede un coinvolgimento fisico per essere “vista”, fruita e vissuta. La plasticità, determinata dall’accumulo di filamenti di alluminio riciclato, è il nido del sommovimento interno (rinnovabile ed intercambiabile) offerto da uno schermo che, attraverso un sistema di telecamere (gesture recognition), rende il fruitore parte integrante dell’azione.
Nella riflessione estetica e tardo romantica europea della fine dell’Otto-Novecento, provocata da W. Worringer, l’avanguardia “in realtà, altro non è che memoria e tradizione, inversione storica e citazione del passato”[24], c’è il nuovo vento di una più libera espressione dei sentimenti e delle emozioni, la riscoperta della natura, dell’aspirazione alla fuga da una tecnica espressiva all’altra, al volo, al trascendere le dure leggi della gravità, e la vista, il colloquio di sguardi, in maniera speciale e unica, incarna nell’attraversamento delle corrispondenze artistiche questa intermittenza, questa fissità. Nell’arte moderna, invece, la forza e la nobiltà della creatura vivente sembra incentrarsi in una stilizzata interiorità, apparentemente capace di restare salda agli schermi. Gli effetti speciali, o speciosi, che avevano fatto credere ad apparizioni miracolose e alla fotografia degli spiriti, sono diventati il quotidiano dei media e dei realizzatori di clip, che li creano con un colpo di pollice (con un colpo aptico). Poco a poco, lo spazio lasciato tra l’immagine e ciò che rappresenta si assottiglia. Un giovane, che racconta la sua storia in We Are Art attraverso gli schermi di una console e che piange quando la storia stessa gli chiede di liberarsi, non sarebbe altro che un’immagine? I volti digitali di Pino, Noemi, Youssouf e Larissa, che seguono con i loro occhi enigmatici i movimenti della telecamera, anche involontari, degli spettatori affascinati, ci colpiscono. Sono doppioni, o altri noi-stessi che ci chiedono di partecipare ai Collòculi? Non stiamo per caso sprofondando in un mondo di altri Occhi?
Non è una vana paura. Le tecniche di Collòculi avvicinano i nostri occhi al loro modello di rappresentazione. Altri sintomi vengono ad aggiungersi, come il gusto dell’arte mediale per il post-ready-made, che trasforma le storie comuni di quattro ragazzi difficili e fa di una vita una scultura vivente. Anche i giochi di ruolo scambiano il teatro e la vita dei quattro ragazzi, o il culto per la loro sperimentazione esistenziale, dove ogni dialogo, ogni iride, può improvvisamente rivestire un valore simbolico, che lo trasforma nell’immagine di ciò che si avvicina alla salvezza.
Collòculi>We Are Art è forse più di una rappresentazione: è già un atto o un atto in potenza? Questa relazionalità tra immagine e vita con il suo oggetto incuriosisce e risveglia la vecchia querelle della catharsis, il potere di una storia di sostituirsi all’immagine reale di uno spettatore, per produrre considerazioni, provocazioni, interrogativi, emozioni, sostituzioni. È così che nei simboli della vista trasfigurata e interattiva si compie la teofania: storie che sono percorsi di affermazione dell’individuo e che nutrono il senso di una ricerca; interazione artistica ed umana, orientata verso orizzonti inclusivi e comprensivi. Il punto di partenza riguarda gli occhi di quattro ragazzi, vittime di bullismo, discriminazione, alcool e criminalità, che attraverso i linguaggi della videoarte e della realtà immersiva, spalancano un universo umano e poetico, coinvolgendo l’osservatore in un confronto che non può essere senza conseguenze, perché “guardarsi negli occhi” significa predisporsi al dialogo, all’incontro. Così, nella sollecitazione e nella pratica libera del dialogo, si afferma il valore di ogni individuo nella società, stimolando il nostro punto di osservazione del mondo. Riprendendo le osservazioni condotte da Annalaura di Luggo, siamo ora chiamati a vedere questa trasmutazione - da vista e vite degli altri, a vista e vita autografa - attraverso il singolare processo di Collòculi. Dice l’artista: «Vedo attraverso gli occhi della gente e al di là della visione comune. Vedo gli occhi che si confrontano con la sofferenza, per dare senso a quello che esprimono. Negli occhi vedo diversità ed unicità. Attraverso gli occhi, i miei “protagonisti” si spogliano da pregiudizi e da condizionamenti, esplorando spazi invisibili Così raccontano cose che nessuno vuole ascoltare, cose che nessuno vuole vedere. Cose su cui, spesso, gli altri, preferiscono chiudere gli occhi! Ho scelto di esplorare l’umano, per vedere occhi nuovi. Così cerco di restituire immagini alla ricerca della singolarità dello sguardo. Mi piace entrare in simbiosi con la profondità di ognuno: sgretolando l’immagine tradizionale degli occhi la ricompongo in un dinamismo di libertà, di movimento e di trasfigurazione spirituale. Per questo motivo ho bisogno di provocare il fruitore, restituendo immagini né convenzionali né rassicuranti: perché sono immagini dell’esperienza, metafore della vita... Per We Are Art ho scelto storie di ragazzi messi ai margini della società: attraverso un percorso di inclusione trasversale mi sono confrontata con giovani con diverse difficoltà; ho cercato nei loro occhi la capacità di rialzarsi, la voglia di ricominciare. Spero, tra le altre cose, di essere riuscita a stimolare l’idea di condivisione, la forza di costruire certezze. In definitiva capaci di guardare lontano! In questa ricerca di vite e di storie di sopravvivenza e di riscatto, trovo l’ispirazione per la mia ricerca e tento di dare un senso al mio lavoro di artista. Il mio lavoro punta sempre a trasformarsi in opere collettive, con funzione sociale e socializzante. Senza lasciare spazio a discriminazioni.»
Dietro al diritto di poter manifestare liberamente il proprio vedere è chiaro che c’è il fatto che chiunque deve avere la possibilità di farlo, ma allo stesso tempo che ognuno deve avere la consapevolezza di ciò che può vedere. Aggiunge Annalaura di Luggo: «We Are Art nasce per stimolare una consapevolezza spirituale del valore di ogni essere umano... perché tutti siamo opere d’arte: We Are Art! È un percorso dall’oscurità alla luce … Come in tutti i miei progetti ho bisogno di utilizzare energie fatte di vita, a cui unisco manualità e tecnologia, affinché chi guarda diventi protagonista della scena, immedesimandosi nella vita degli altri. Collòculi>We Are Art è insieme un’opera multimediale e un contenitore suggestivo, con una funzione non solo estetica ma anche di stimolo etico e sociale. Attraverso questo lavoro invito il pubblico ad un’esperienza immersiva e multisensoriale, digitale ed interattiva, con una forte propensione al coinvolgimento emotivo. L’opera conduce verso una trasfigurazione visiva che racconta un’evoluzione della storia, stimolando una sensibilizzazione all’inclusione. È per questo, o anche per questo, che sono documentate le storie intimamente personali di quattro giovani che intraprendono un percorso che dall’oscurità porta alla luce…»
Nell’esperienza di We Are Art, l’artista trova il con-sentimento col prossimo e realizza il con-senso con i destinatari della sua opera. «La sperimentazione auditiva del sound design rende il progetto fruibile anche in assenza della capacità visiva. Il sound design, che riporta i rumori reali della scena, diventa inclusivo anche nei confronti della diversa abilità visiva. We Are Art non costituisce solo una ricerca sociale e artistica sulla percezione umana, ma anche un’affermazione del valore dell’individuo come parte attiva della società. Qui sono gli occhi dei quattro protagonisti che ho scelto, a svelare altrettante singolarissime storie di sopravvivenza e di riscatto. [...] Collòculi ha la forma di un’iride gigante ed è realizzata in alluminio riciclato; mi piace immaginarla come una rappresentazione del nostro pianeta e come simbolo di economia circolare e sostenibilità ambientale.»
L’intento è, dunque, aiutare i soggetti a recuperare la propria identità, a partire dalla riscoperta e dalla custodia del senso “autopietico”. Questo è possibile dischiudendo alla metafora della vista (regno dei valori e dei sentimenti intimi), della persona e dell’autoriflessione: «Nell’opera è sintetizzata l’evoluzione intima ed interiore di Noemi, Youssouf, Larissa e Pino. Quelli che si riscattano dal loro passato e si trasfigurano in immagini artistiche. Lì, dove l’iride invade la sagoma umana, con un’inversione di prospettiva in cui è il corpo ad essere racchiuso nella metafora di un’anima, espressione della bellezza della creazione divina, che non lascia spazio a discriminazioni. Siamo tutti figli di Dio e calpestiamo la stessa terra. Ai suoi occhi non siamo forse tutti uguali?»
Ha scritto Simone Weil: la pratica artistica “generalmente è considerata una forma particolare, mentre invece è la chiave delle verità soprannaturali”[25].
C’è comunque, nella nostra cultura virtuale, qualcosa di molto simile al codice di Collòculi e che non riguarda, soltanto, il cinema: è l’alfabeto dell’installazione che, sintetizzato e semplificato, è analogo all’alfabeto della condizione relazionale. Gli algoritmi permettono di lisciare e di spiegazzare le superfici, di imitare la struttura dei materiali più diversi, di variare i movimenti e le espressioni con le luci e le ombre, di fare ruotare gli oggetti, metterli al centro o in prospettiva dinamica, per dare l’illusione della terza dimensione. Che cosa succede quando le storie diventano immagine-gesto, perdendo il loro supporto (picture) e si trasformano in algoritmi? La propensione dell’immagine è di integrarsi nelle cose. Ebbene, in We Are Art - la corrispondenza tra Collòculi e il docufilm diretto da Annalaura di Luggo - la cosa non è sfuggita. E non è sfuggito quel piacere di cui parlavamo poco fa: il piacere che dà al pubblico l’attimo di una sequenza gestuale o visiva secca, in cui il documentario agisce secondo codici oscuri – non immediatamente leggibili – e tuttavia nel loro insieme intensivi, ambigui, drammatici. Forse tutto è cominciato con una testimonianza di esistenze, i quattro ragazzi di vita (gli otto occhi di carattere), diversamente abili e “diversamente diversi” che realmente, nel loro passato e presente, si sono occupati di rieducazione e che quindi conoscevano bene la loro stessa condizione. Il modello Collòculi, là dove si autoriconosce come un’opera d’arte sociale, sempre, e da sempre, stimola nei suoi artisti straordinarie improvvisazioni autobiografiche, su cui storia, esposizione e rappresentazione elaborano una loro precisa coreografia (originalissima, davvero sua, e che tuttavia appartiene anche ai singoli soggetti che vi hanno partecipato, compreso chi scrive che ha seguito lo sviluppo e il trattamento). Ebbene, al gruppo dei ragazzi difficili si chiede di eseguire se stessi, di mettere in relazione il proprio sé con la narrazione collettiva di We Are Art, usando un Alfabeto Sonoro e il testo di una canzone auto-valorizzante. Quando l’immagine viene griffata o incisa sulla pelle dell’installazione e del docu-film diventa scarificazione, cicatrice. La sua interiorizzazione può trasformarsi in percettiva. L’identificazione di Collòculi
al suo modello funziona come uno scrigno, come una scatola di attrezzi introspettivi.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un profondi traumi emotivi. A causa della pandemia abbiamo sperimentato l’angoscia e la depressione dovuta all’isolamento forzato ed alla solitudine, col risultato di un crollo dell’autostima e della consapevolezza del proprio lavoro. Uno dei modi per illuminare l’animo nei tempi più bui è nutrirsi di arte. L’arte è espressione dell’immaginazione e dell’abilità creativa: richiede ingegno, costanza, competenza tecnica, propensione al bello, forza emotiva e, soprattutto, cuore. Col cuore si offre gioia, speranza e ottimismo. E il cuore è al centro di ogni opera di Annalaura di Luggo. Ho il piacere di condividere da anni un rapporto fraterno con Annalaura e la considero non solo una cara amica ma anche una donna dai profondi valori umani, oltre che una vulcanica forza della natura.
Quando mi ha chiesto di collaborare con lei al suo nuovo e più ambizioso progetto artistico, “We Are Art”, mi sono sentito onorato. Chi non avrebbe gioito immensamente per l’opportunità di stare fianco a fianco con un’artista così visionaria, soprattutto dopo la gratificante collaborazione precedente per il documentario “Napoli Eden”?
Le numerose sfide che abbiamo affrontato giorno dopo giorno in “We Are Art” sono state molto diverse da quelle che ho affrontato nei miei quarant’anni di carriera cinematografica… Non soltanto sotto il profilo artistico e tecnologico ma soprattutto per la pregnante componente spirituale di questo progetto. Alla fine, quando ho visto i risultati dei nostri sforzi e il cambiamento avvenuto in coloro i quali erano al centro del nostro lavoro, hanno reso ogni giorno di impegno ancor più memorabile e gratificante.






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