Stefano Biolchini
Critico d'arte
Il sole 24 ore
I napoletani che con competenza antica spiegano la bendata “fortuna” con i più variegati perché senza tentennamenti lo hanno eletto a sostegno delle proprie ansie e speranze, intrecciando alle sue lamine argentee i propri biglietti come moderni ex-voto. E la bellezza di “Pyramid”, albero-non-albero di alluminio riciclato, è assurto a simbolo di questo Natale partenopeo in cerca di riscatto. Perché “Pyramid” è una scultura “composita”, con i ragazzi dei quartieri spagnoli che hanno fatto da “maestranze” nella sua realizzazione, e sta nella Galleria Umberto I quale esempio più eclatante del processo di appropriazione che la città ha fatto dei lavori di Annalaura di Luggo. L’artista, un vero ciclone di determinazione e impegno dietro una maschera minuta, non è certo nuova a iniziative dirompenti. Già il suo progetto Blind Vision, con installazioni che hanno coinvolto dall’Istituto Colosimo al Carcere minorile di Nisida, con il progetto Napoli Eden (Forte della curatela di Francesco Gallo Mazzeo), si è impadronita di alcuni dei luoghi più suggestivi della città. Se “Trìunphus” si impone quale arco sulle prospettive che dalla Piazza Municipio con la sua fontana incorniciano il Maschio Angioino in uno svolazzare leggero di lamelle lucenti, già esse stesse metafora di una rinascita a nuova vita - ed è quasi invito di sirene il passaggio obbligato sotto la sua “arcata ortogonale” - le luci d’intorno alla piazza giocano in una myse en abyme con i bagliori che trasudano dalle “mura” leggere di questa installazione possente ed aerea al contempo. E il richiamo si fa irrefrenabile per selfie e ritratti di turisti e cittadini. Anche qui, a stupire è l’interazione che l’installazione “ha creato” fin da principio, inscrivendosi nel tessuto della piazza fino a cambiarne il punto focale: dall’arco si osserva l’architettura d’insieme e si è guardati. E ancora “Gèminus”, che in Largo Baracche compie il “miracolo” di divenire fulcro della piazza, una piazza che è poi un parallelepipedo sopraelevato e recintato sulle vie d’accesso e su cui incombono i palazzi d’intorno. Il gioco di specchi e riflessi del totem fatto di due “cubi sovrapposti” qui raggiunge il parossismo. Negli oblò si specchiano finestre ed interni, dai cerchi di vuoto si intravvedono i panni stesi e le insegne, i volti dei passanti. E su tutto, come sfingi misteriose, le iridi luminescenti e concentriche di nere pupille osservano e incombono sull’ammasso pressato di “mattoni” d’alluminio riciclato che fanno da base alla scultura. L’acme di una piazza è ormai in questa scultura, sarebbe davvero un peccato levarla ora che la contestualizzazione ne ha determinato il perno. E i “vicini”, per primi i ristoratori dei locali che in Largo Baracche si affacciano, se ne prendono cura. Ciro, che in piazza è il re dei babà, della scultura si è fatto guardiano. La illustra ai passanti e protegge dai malintenzionati, ergendosi così, anche inconsapevolmente, a misura del processo di identificazione fra l’oggetto artistico e il suo sito. No davvero non si può più privare la piazza di Gèminus. E infine, il progetto della di Luggo in Largo Santa Caterina mostra “Harmònia”. E’ il trionfo del colore. Il blu si incontra con il nero, il rosso, il giallo, il verde e l’argento di sinuose strutture tubolari d’alluminoio che guardano al cielo in un giuoco di intrecci luminosi. L’angolo da cui l’installazione si protende ne rivitalizza l’insieme, con le prospettive aranciate dei palazzi che sembrano fargli ala. Come i serpenti il Laocoonte, i tubi avviluppano l’insieme e concentrano gli sguardi, rallentando il passo e concentrando la riflessione in un punto non più morto. E’ la rinascita che solo la bellezza dell’arte sa regalare a un luogo. Le contraddizioni di una città come Napoli certamente non si dissolvono, ma per un attimo di “armonia e purificazione” nel segno dell’arte possono almeno attendere.