Francesco Gallo Mazzeo
Critico d'arte
Napoli è sconfinata, non ha basso, non ha alto, non ha destra, non ha sinistra, non ha orizzonte, non ha muri, non ha niente di tutto quello che è normale, scontato, narrabile, spiegabile, giudicabile. Il suo epico romanzare è un sublime che tocca tutto, fugge tutto, scatenando un’invisibile forza, una sconosciuta potenza, che si può dire con la poesia, con la canzone, con la musica, con i larghi sorrisi della gioia, come con i lunghi pianti della tristezza. In essa tutto è abbraccetto, vita e morte, per dirla con bene e male e lo stesso tempo avviene con una (ma perché una …) variabile che sa di tutto e sa di niente, passando da un profondo, profondo, profondo, dove s’incontrano (perché tanti l’han visti, in sogno certo … e dove altrimenti …) le parole ventose della Sibilla, con gli esperimenti di don Raimondo, mentre s’invitano a cena, maschi angioini e femmine bugiarde. Tutto teatro, tutta messa in scena che vuol dire che si tratta solo d’invidia, di chi è fuori dal mondo, perché non ha mai visto Napoli, quando è giorno e le pietre parlano le piante ridono, quando è notte e s’odono gli spiriti eletti che raccontano di Virgilio, mentre quelli dionisiaci ballano, cantano e bevono. Ogni volta è una prima volta. Come una grande alba che non ha visto tramonto, non c’è ripetizione, non c’è ritornello, sia quando respira la montagna, sia quando si gonfia la rete e viene Partenope, sia quando si diverte Pulcinella. Nelle sue strade, nelle sue contrade, nelle sue piazze, nei vicoli e nelle barche, ogni cosa trasuda miracolo, ogni amore diventa commedia, ogni contesa diventa un abisso e mai che vengano mezze misure, o di qua o di là, perché nel mezzo non c’è virtù, non c’è storia, non c’è niente, come il sangue di San Gennaro, che ora non c’è, ora c’è, come un tesoro nascosto che orgoglioso di sé, si mostra a chi vuole, gli altri li lascia per la strada, fuori Porta Capuana, sulla via di Pozzuoli o su quella di Miano, senza suoni e senza fanfare. Napoli non si può fare a fette, un po’ si un po’ no, o si prende o non si prende, perché in essa c’è il mito, la leggenda, la storia, la realtà, tutte fuse insieme, per cui bisogna essere innamorati, indovini, alchimisti, astrologi, oltre che geometri e salernitani, per affacciarsi nel suo grande specchio, senza esserne assorbiti, ammaliati, trasformati, da Circe, figlia del Sole, che alberga più a nord, da Parmenide che vive un poco più a sud, facendovi un cerchio, un destino, di natura tanto, moltiplicata, molteplice, di atmosfera incantata dove ogni uno è uno, così come nessuno è nessuno, centomila è metafora e desto destino. Appena ad essa si bussa, la porta si apre, ma guai ad entrare del tutto, bisogna rimanere in sull’uscio, bisogna che subito l’innamoramento sia tradotto in amore, perché gli occhi vedano, le orecchie sentano, le mani tocchino, senza che vinca una strana sindrome (di Stendhal) che ti fa perdere e ti fa ritrovare, come una sacca e una risacca, tanto che fa dire che tutto è inutile e Napoli non si cambia, ma è essa che ti cambia. Ogni cosa di cui si parla, se n’è già parlato, ogni cosa che si vuol fare s’è già fatta, sembra che anche le nuvole recitino a soggetto e gli stessi uccelli del cielo facciano parte d’un quadro che non ammette ignoranza. Tutto è a rischio di grande eco, per questo bisogna precedere punto dopo punto senza farsi prendere da narcisismo d’eccesso, seguendo dei fuori pista che non portano da nessuna parte, perché quando si opera in uno spazio complesso, quale quello di una città millenaria, anche quando non si tratta di modificare le strutture, ma di mettere un abito di festa, bisogna un po’ sconvolgere, questo è vero, altrimenti che ruolo avrebbe la fantasia, l’invenzione e la stessa parola arte, opera fatta ad arte, non avrebbe nessun significato, ma un po’ essere maieuti e tracciare un percorso che tutti possono seguire, i lenti, i veloci. Non si tratta di inseguire una forsennata originalità, ma di farsi guidare dai luoghi e dalle persone, senza pensare di travolgere tutto, senza badare al peso degli anni, degli usi, dei costumi, pensando che la realtà sia soggettiva, scientifica, incontrovertibile. La realtà non esiste, è un desiderio, è una aspirazione che ognuno vede in un modo, quello che esiste è il reale che governa ciascuno di noi con gli idola (di cui parlava Francesco Bacone), illusioni, fantasmi della mente, l’esperienza stessa, dovuta alla nostra propria mente, impressionata dalle cose, attraverso i sensi, spesso deformanti, astratti. Fare due passi avanti, fare un passo indietro e poi di lato a destra e sinistra, fare la mossa del cavallo, non tenendo lo scacco matto ma senza andare a cercarlo con l’impazienza di un Icaro funesto, sapendo che una forza può fare tanto, ma non può fare tutto e deve darsi un metodo senza fare disfide che richiamano iene e sciacalli, ascoltando i fruscii di leoni e tigri reali, perché la metropoli è foresta, è selva, oltre che bene e che bello, andando con Dedalo prima, pensando sempre al filo d’Arianna. Eppure abbiamo tentato lo stesso, rispondendo con cognome e nome, come alle scuole elementari e come un Esposito Gennarino, incontrato in un sogno. di Luggo Annalaura: presente. Gallo Mazzeo Francesco: presente. Colella Bruno: presente. Pera Graziella: presente. Questi siamo noi (con Marco, Maria Sofia, Olindo, Marcello) e poi quelli che chiamiamo altri a cominciare dai tanti scugnizzi con cuffie, jeans attillati e capelli sfumati, in un grande coro che ha fatto e ce l’ha fatta. Immaginare il cosmo nel caos, il giardino nella selva, il grado nel degrado, non badando ai fiori del male, con l’indole di chi raccoglie i chicchi di grano dopo che il sacco s’è rotto, che un traccia un cardo, un decumano, rendendo omaggio ai martiri della libertà con un arco splendente, onorando la nascita alla luce di tutti noi, fidando nell’albero del bene e del male, mettendo gli occhi del cuore a vigilare nel buio, facendo del tutto si trasforma un mantra, perché le cose restino buone e mansuete e non mutino in orrore e in fatui fuochi. Napoli/Eden, non a caso ma con precisa intuizione, per exempla, nati dai lunghi giri, volte e rivolte, a piedi o in carrozza, correndo o scandendo i passi, perché solo così possono avvenire gli scambi tra chi pensa che similia cum similia curantur e chi invece, contraria contrariis curantur, come dire che Apollo parla con la voce di Dioniso e Dioniso di finge Apollo, in modo da farsi amare dagli spiriti, oltre che dai corpi e intonare una bella corale che indichi una via, non non è la via, ma non è assolutamente l’erranza, l’errore, la deriva, l’allucinazione o la depressione, ma una lucida follia che cerca e cerca una recondita armonia e con essa intraprende un cammino, compiendo un passo, che di tutto può dubitare tranne che di se stesso che dubita, seguendo una stella, cercando la luce.