Francesco Gallo Mazzeo
Critico d'arte
Astrazione è quella che parte da un punto, da un orizzonte, da un quid e non si sa dove arriva, perché essa è la città di tutti, ma non è perdizione, non è caos, non vana illusione, ma punto nell’universo in cui ognuno troverà il suo cielo e incontrerà il suo destino, magari con lo stesso Agostino che verga Civitate Dei , mentre dialoga con se stesso, con l’uno, col tutto. Nel suo corpo, nella sua anima, sono installate le lodi della fantasia, che sono segnali arcani, motivi del dubbio, ma desiderio del fare, come compagno al pensare, un cacciare l’ignavia, un tracciare, orme, impronte, panieri ricolmi, per viaggi, ricerche, labirinti e lunghi rettifili. Perché è così che lì immaginario dimentica il vuoto e di passo in passo, di parola in parola, rompe i confini e non finisce l’andare… Geometria astrale che si ritrova in ogni nostro momento, in ogni nostro frammento, quando si occupa di mettere un accentò là dove c’è un groviglio, facendo intrigo di verticali, orizzontali, trasversali, di | by di mille e mille cardi e decumani, dove attendere le forme della fantasia, come zodiaco su cui camminare, come specchio di quello, da filmare con le pupille degli occhi, perché l’alto e il basso, possano essere una grande unità, che a noi appare come appare mentre viaggia e non si ferma mai, dall’inizio (quello che a noi sembra tale) all’oggi che comprende io, tu, noi, voi, essi, sull’eco di altri che hanno detto io … tu … noi … voi … essi, e quelli del tempo avvenire, in un suono dell’arcano che si sente, si sente, si vede, si vede, si tocca, si tocca, eppure sfugge, sfugge. Materia dei sogni, quella che fa dire ad Omero, “tu dormi Atride”, “tu dormi Achille”, “tu dormi Penelope”, ma il pensiero non si riposa, non si dà per vinto e non s’accontenta della vittoria, facendo monologhi, oppure dialoghi, cantando, cantando, piangendo, facendo profezie, scongiuri viaggi immaginari, in sconvolgimento di ogni cronologia, liberando amori, straripando tempeste, perché tanto non è vero, reale, ma più vero, surreale. Senza tempo, passato e futuro, con tutto il rigore possibile e con tutta la libertà immaginabile, perché la fantasia non è evoluzione, perché l’arte non è progresso, ma una grande ricapitolazione, a cui s’aggiungono scoperte, invenzioni, ma senza poter dire che ci sia un là, che non può stare qua e viceversa, mentre l’apparenza gioca le sue carte, mettendo in palio i sentimenti e le emozioni, come fossero venti passeggeri e variabili, mentre sono le costanti di ogni attimo del grande specchio che contiene, immagini, poesie, canzoni, architetture, giardini, preghiere, digiuni e feste, perché tutto è previsto, tutto è accaduto, ma sta a noi farlo accadere ancora, come un innamoramento, che è eterno, ma è sempre nuovo, con la complicità dell’oblio, che fa da effetto desiderante, proiezione dell’unicum, anche dove, cielo e mare e terra, si fanno tantum. Hic et nunc è fantasia che parte dall’insolvente confusione delle lingue, offuscamento della luce del sole, turbinamento delle acque del mare, mutamento di flora e fauna in cemento, dell’usignolo in sirena d’allarme, per farsi idea, progetto, portando leggero sentimento, alate parole e magia, contra ogni triste agonia. Allargando là dove si restringe, aprendo là dove si chiude. Trovando così l’impegno che non è per questo o per quello, ma è per tutti, trasformando biologie in biografie, partendo dal leggendario, dal c’era una volta …, facendolo, componendolo come un nuovo Cantico delle Creature, come un altro Orlando furioso, una Repubblica di Platone, un’Utopia di Tommaso Moro. Somiglia ad Ulisse che non si lascia incantare, pur vivendo tutte le gioie dell’incanto, che non si lascia ammaliare, pur godendo di tutte le suadenze dell’ammalio, per continuare a cercare, a cercare, senza fermarsi perché la ricerca è infinita, come lo è l’inseguimento della perfezione, della verità, vivendo e facendo, come se ogni tratto fosse l’ultimo tratto e ogni miglio, l’ultimo miglio, avendo la consapevolezza che (in questa vita) non avremo mai perfezione e verità, ma poterle cercare, inseguire, è grande gioia. Perché nel cammino c’è, sempre in agguato, la “maledizione” di Prometeo che non è ripagato per avere portato la luce e il colore, perché le tenebre non sempre comprendono chi le scompone nel loro stato di quiete e si fanno selva, regno delle ombre, facendo perdita di ogni vincita, mentre incede Fortuna, chiamata Euclide, ad evocare geometrie che fanno di ogni impossibile, un nuovo tracciato, di ogni enigma, un nuovo sapere. Imposta d’alchimia che tramuta l’ordinario in straordinario, la “povera” terra in un miscuglio prezioso, per dare un peso, una consistenza, alla scommessa di confronto con la storia, con la narrazione, con tutto quello che può creare emozione, sorriso, parola, facendo del frutto immaginario, una maieutica essenza che traina pesi e li fa diventare leggerezza e di lievitazioni in lievitazioni, traccia le coordinate di quello che non visto potrà essere visibile, ignoto potrà essere chiamato per nome, facendo convivio dove c’erano solitudini, polifoniche gioie, dove … tristi silenzi. Natura è bellissima metafora, è cubo, icosaedro, tetraedro, ottaedro, è polimorfa, per l’aedo e il cantore, per il pastore soterio e nomade, per l’augure che fonda città, ma è porta aperta a bufere, intemperanze, a scorribande e nequizie: dobbiamo per questo ascoltarla, accarezzarla, essa che è natura madre, “adottarla”, farla nostra figlia, crescere insieme. Cultura è consapevolezza, memoria, progetto, amore, ma anche habitus, meccanismo, automatismo, ogni cosa che comporta una elaborazione, quella che abbiamo chiamato città del mondo, tanto che al suo richiamo rispondono Ur dei Caldei e Giardino di Ciro, come riflesso di volo, di arte, mentre nuovo Noè (o Noè, di nuovo) sbarca dall’arca piante, fiori, tutti i viventi. Opera è somma di piccoli gesti, uno dopo l’altro, che tolgono da un fantasma e aggiungono un corpo, togliendo e mettendo, in modo che la luce possa magnificare se stessa facendo radiare l’invisibile, reso visibile. Spazio di spazio, linea e colore, è quello dello sciamano degli Ostiak, che cantando, dice di levarsi nel cielo, sopra una corda, scansando le stelle che gli ostacolano il passaggio, mentre l’eroe Hudathu Bilik, sogna di salire una scala … di cinquanta gradini, in cima alla quale una donna gli offre da bere e così rianimato dalla lunga fatica può giungere fino al cielo (Mircea Eliade).